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Comune di Caselle Torinese
martedì, Novembre 5, 2024

    Sull’altra sponda della nostra Stura c’era…

    Le cascine di Venaria Reale nel catasto del 1727

     

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    Avevamo già visto più volte come l’analisi dei catasti casellesi del Settecento ha permesso di descrivere in modo puntuale il territorio a quei tempi; ora, a seguito di uno studio in corso sul catasto del 1727 di Venaria Reale, vediamo come era questo territorio confinante con Caselle. Preciso che a quei tempi quando si parlava di Venaria Reale si intendeva solo il territorio di Altessano superiore, e non anche quello di Altessano inferiore oggi facente parte di un unico comune.
    Sede dell’imponente residenza reale di caccia dei Savoia, Venaria Reale lasciò la sua antica denominazione di Altessano superiore nella seconda metà del XVII secolo quando il duca Carlo Emanuele II decise di acquistare il feudo dai vari proprietari in cui era diviso.
    Come scrive il Sicco a metà Settecento: “Da che fu dai Reali Sovrani eletto, e riservato per luogo di loro delizie, e per esser prossimo al gran Paese (Torino), o sia ai vasti Tenimenti a bosco propri, e riservati per le Regie Caccie, fu titolato Venaria Reale dal verbo Venor Venaris”.
    Altessano inferiore, invece, rimase in appannaggio alla potente famiglia dei Marchesi di Barolo come loro feudo autonomo, e quindi per ora non tratteremo questa parte di territorio, che sarà sede di un futuro articolo.

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    Il territorio coltivato
    Nella prima metà del XVII secolo, analogamente a quanto successe in tutto il Torinese, anche Altessano venne influenzato dalle innovazioni del mondo agricolo, con la formazione di nuove cascine e il perfezionamento delle tecniche agrarie.
    Tali cambiamenti vennero anche favoriti dalla vicinanza della città con il suo mercato “comodo” e di sicuro assorbimento per tutti i prodotti eccedenti il consumo locale.
    Questo periodo storico venne caratterizzato anche da un forte incremento dell’allevamento del bestiame: dalla tecnica della stabulazione libera (animali liberi nei pascoli), si passò alla stabulazione fissa (allevamento in stalle).
    Tutto questo portò a un notevole incremento della rendita agraria, anche grazie all’adozione del prato stabile in sostituzione dei precedenti pascoli comuni, ormai quasi inutili per le aziende agrarie, che rimasero principalmente per i piccoli contadini che avevano terreni propri.
    Rapidamente si assistette a uno sviluppo in senso capitalistico dell’agricoltura con un investimento crescente di capitali, non solo nell’acquisto delle terre, ma anche ai fini del miglioramento fondiario e agrario.
    Da allora il “campo” non fu più un semplice pezzo di terra da coltivare, ma venne inteso come un manufatto pensato e approntato per rispondere a dei fini produttivi, dove la sua forma, la sua misura e il suo orientamento non erano mai casuali, ma progettati con lo scopo di ottenere il miglior equilibrio possibile tra il suolo e l’acqua.
    Le parti di territorio maggiormente coltivate erano quelle poste a sud del centro abitato lungo il confine di Altessano inferiore che erano campi, prati e alteni.
    Erano queste le zone più fertili, e fino alla fine del 1600 erano molto più ampie in quanto comprendevano anche l’area poi acquisita dal duca all’inizio del Settecento, per ampliare la sua tenuta, e che oggi è principalmente occupata dall’aeroporto militare.
    In una relazione della metà del Settecento, si riferisce che i beni coltivati erano tenuti “con diligenza” e che erano anche “ragionevolmente fruttiferi”, ma che sovente, prima che i frutti maturassero, venivano danneggiati dai cervi e da altri animali selvatici destinati per le “Regie Cacce”.
    Questa relazione tratta dei pochi beni di questo territorio che si trovavano descritti nel pubblico catasto, cioè della sola porzione spettante alla Comunità, e ai “Particolari” (proprietari privati), mentre non si parla, come in questo articolo, della porzione di territorio che apparteneva a Sua Maestà.
    Come risulta dal catasto del 1727, la porzione di territorio di proprietà reale, non corrispondeva però a tutto il territorio dell’attuale Parco della Mandria e del castello: parte della zona verso est attualmente recintata era ancora di proprietà privata.
    In pratica il confine era una grande strada rettilinea chiamata la “Gran Lea” che correva dal centro abitato fino ai confini di Robassomero, che faceva parte delle cosiddette “Rotte di Caccia”.
    Un’altra zona coltivata era circoscritta nella regione chiamata Ronchi a ovest del territorio e tutta circondata da boschi, dove si insediarono alcune cascine. Il toponimo Ronchi deriva da roncato, ossia terreno disboscato, che chiarisce l’antica origine di questa zona.
    La zona verso nord-ovest del paese, oltre il torrente Ceronda, era invece ricca di acque che derivavano da risorgive vicine alla Stura (un toponimo individua la Fontana Barletto), e per questo erano principalmente coltivati a prato; nella relazione vengono definiti “beni prativi d’un terreno per altro freddo, e cretoso, ed in parte anche ghiaioso”.
    Andando verso est e avvicinandosi alla Stura i beni erano caratterizzati da un terreno “giaroso e di poco prodotto, salvo a forza d’ingrassi” (concimazioni).
    Beni incolti e abbandonati non se ne ritrovavano, salvo quelli che erano nei tenimenti a bosco e che non si potevano ridurre a coltura perché le leggi ducali le vincolavano a uso delle Regie Cacce.
    Erano incolti per ovvie ragioni anche i numerosi ghiareti del fiume Stura, e del torrente Ceronda, in quanto il terreno era costituito prevalentemente da ghiaia e arena.

    Boschi
    Sempre la relazione dice che “resta il territorio competentemente fornito di piante, dove si potevano utilmente riprodursi”, e per la maggior parte del territorio la coltivazione consisteva in tenimenti di bosco ceduo, che, come detto nella relazione, “a luoghi più, ed a luoghi meno si produce, secondo la diversa qualità del fondo più o meno abile alla produzione d’esso”.
    I grandi boschi della Comunità erano principalmente cedui di rovere, verna (l’ontano in piemontese), e nocciola. La relazione riporta che ogni anno, secondo il permesso delle Regie Cacce, ventiquattro giornate di bosco venivano suddivise in tanti lotti separati per poi vendere all’asta pubblica il taglio degli alberi; il ricavato veniva destinato al pagamento delle imposte straordinarie, alla sovvenzione delle Opere pie del paese, al pagamento degli stipendi oltre che per poter pagare altri debiti della Comunità stessa.

    Le Cascine
    Il territorio di Altessano superiore ormai chiamato Venaria, non aveva molte cascine, questo perché il territorio più adatto e pianeggiante era solo la parte a sud-ovest confinante con Altessano inferiore, Collegno e Druento, ed è proprio in questa zona che nel XVII secolo si concentravano la maggior parte delle cascine (almeno sette).
    All’inizio del 1700 però buona parte di questo territorio venne acquisito dal duca per incorporarlo nella sua grande tenuta della Venaria, e così le cascine rimaste di proprietà privata restarono ben poche.
    Molti di questi proprietari privati erano nobili o ricchi commercianti torinesi che investivano i loro capitali nelle aziende agricole, mantenendole efficienti e produttive, tenendo sotto stretto controllo gli affittuari con visite periodiche sia direttamente che tramite i loro agenti.
    Inoltre le Cascine Maulandi e Galleani descritte al n. 5 e 6, per la loro estensione, rappresentano due casi emblematici per il territorio di Venaria per la presenza della “villa”. Parallelamente a quanto successe in tutto il Torinese, a partire dalla metà del XVII secolo con la rinascita dell’economia agraria, iniziò a sorgere accanto alla cascina un nuovo importante elemento: la “fabbrica civile”, palazzina o villa del proprietario che vi risiedeva solo una parte dell’anno, e che in genere gestiva il podere tramite un suo agente. Questo fenomeno, nato come un ulteriore simbolo di ricchezza dei proprietari, coinvolse tutte le classi sociali, a partire dalla grande nobiltà, per finire con la borghesia e i nuovi nobili (negozianti, professionisti e funzionari pubblici e di Corte).
    Nell’allegata tavola elaborata sulla base di una mappa dell’inizio dell’Ottocento vengono individuate le cascine più importanti che nel catasto del 1727 possedevano almeno 25 giornate di terra (circa 10 ettari), un’estensione minima per far sì che l’azienda desse un adeguato rendimento ai suoi proprietari, che nella quasi totalità dei casi non gestivano direttamente la tenuta, ma la concedevano in affitto con contratti normalmente quadriennali.
    Le cascine esistenti sul territorio, censite sul Catasto del 1727, partendo da nord, erano le seguenti:
    1 – Cascina Feroglio, poi Rivoira, in regione Ronchi, di proprietà del sig. Maurizio Feroglio, con 20 giornate di terra, nel secolo successivo venne acquisita dal medico Buridano, e prese il nome di Cascina Medico superiore.
    2 – Cascina Buridano, poi anche detta Medico inferiore, in regione Ronchi, di proprietà del sig. Giovanni Buridano, con 43 giornate di terra che divideva con l’altra cascina in proprietà posta nel paese.
    3 – Cascina Allouet oggi Brero, in regione Ronchi, di proprietà del sig. Nicolao Deleque del fu Nicolao della Normandia, detto Loetto, da cui derivò il nome della cascina, con 35 giornate di terra. All’inizio dell’Ottocento diventò di proprietà di Carlo Alfurno di Alessandria. Questa cascina venne in seguito inglobata nelle proprietà della Regia Mandria, e oggi si trova all’interno della recinzione.
    4 – Cascina Rochione oggi conosciuta come Rampa, sempre in regione Ronchi, di proprietà della sig.ra Anna Rochione , con 2 giornate di terra per poi passare in proprietà a Antonio Bertalli all’inizio del 1800. Anch’essa, come la precedente, venne acquisita dalla regia Mandria.
    Sempre in regione Ronchi, e l’adiacente regione Vaudio, si trovano invece due cascine che meritano un accenno particolare, non solo per l’estensione della proprietà, ma soprattutto per la presenza delle lussuose ville adiacenti, che servivano da residenza di campagna dei nobili e facoltosi proprietari.
    5 – Cascina e villa Maulandi, oggi conosciuta come villa Rossi, in regione Vaudio o Ronchi, di proprietà del sig. Nicolao del fu Marc’Antonio della città di Sospello, con ben 200 giornate di terra. Nicolao era erede indiretto di Fabrizio Maulandi, che era un alto ufficiale della corte sabauda che venne nominato Capitano della Venaria Reale e che realizzò la cascina nella seconda metà del XVII secolo. Questa Cascina con la sua splendida villa è stata recentemente restaurata dagli attuali nobili proprietari.
    6 – Cascina e villa Galleani, in regione Vaudio, di proprietà del sig. Giovanni Francesco Conte di Barbaresco Galleani, del fu Giulio Antonio, con 173 giornate di terra. Il conte Galleani venne chiamato dal duca per impiantare un importante e moderno setificio proprio sul territorio di Venaria. Nell’Ottocento passò in proprietà prima ad Bernardino Avondo, e poi ai Lessona. La lussuosa villa e l’adiacente cascina vennero purtroppo demolite negli anni ‘60 per far posto ad un nuovo fabbricato.
    7 – Cascina Luchina o anche detta Prevostura, in regione Luchina, di proprietà della Chiesa parrocchiale, con 74 giornate di terra. Questa cascina nacque da una permuta dell’inizio del 1700 che il duca volle fare alla Chiesa in cambio di vari altri terreni che gli servivano per completare la tenuta. Questa cascina è stata recentemente demolita per la realizzazione di un nuovo complesso edilizio.

    Le cascine nel paese
    Molto diversa è invece la storia dei fabbricati rurali posti ai margini del centro storico ricco di botteghe e attività artigianali legate alla Reggia. Nella zona verso sud-ovest denominata Chiosso, esistevano già nei secoli precedenti diversi cascinotti aggregati.
    Anch’esse erano delle aziende agricole, ma che difficilmente superavano le 10 o 15 giornate di terra, ed erano abitate dallo stesso proprietario che gestiva direttamente l’azienda insieme alla sua famiglia, con l’aiuto al massimo di qualche salariato.
    L’economia di queste aziende era rivolta essenzialmente all’autoconsumo; ben poco era destinato alla vendita sui mercati locali.
    Il catasto del 1727 censisce solo i terreni, pertanto tutto il nucleo del centro storico resta senza indicazioni dei fabbricati esistenti, rendendo molto difficile conoscere sia i loro proprietari che la loro destinazione d’uso. Comunque analizzando con attenzione la mappa e confrontandola con altri documenti, si può a oggi “leggere” la presenza, a fianco dei cascinotti, di alcune grosse cascine poste sempre ai margini dell’abitato, attualmente ancora di difficile individuazione.
    Oggi, inglobati nel centro urbano, ben poco si conserva degli originali fabbricati, demoliti o trasformati completamente per usi residenziali o commerciali.
    Dai dati catastali antichi e dalle superfici in proprietà si possono per ora individuare alcune principali cascine che avevano almeno 30 giornate di terra coltivata, ma sicuramente altre saranno individuate in futuro. Tra queste spiccano i seguenti nomi, che possedevano un fabbricato proprio in regione Chiosso:
    8 – Cascina di proprietà del Sig. Rosetto (o Rozetto) insieme ai fratelli Pietro Antonio e Giuseppe del fu Giovanni Antonio di Altessano superiore, con 45 giornate di terra.
    9 – Cascina di proprietà dei fratelli Negro (o Negri) Luigi e Pietro Antonio del fu Michele di Altessano superiore, con 64 giornate di terra.
    10 – Cascina di proprietà del Sig. Bordone Michel Antonio del fu Tommaso di Altessano superiore, con 75 giornate di terra.
    11– Cascina di proprietà del Sig. Buridano Giovanni, che insieme a quella in regione Ronchi contava 43 giornate di terra. Di questo edificio oggi si può vedere ancora l’antico portone sulla manica lungo la via, anche se ovviamente completamente ristrutturata.

    In un prossimo articolo parleremo delle regioni in cui era suddiviso il comune nel 1700 dove sia lo studio dei toponimi, sia l’analisi dei proprietari e delle particelle potranno dare un altro contributo alla storia dell’evoluzione del territorio.

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