Itavia, una storia tragicamente italiana

L’F-28 Mk.1000 I-TIDE a Caselle alcuni mesi prima della tragedia

 

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Il 13 ottobre 1958 veniva fondata a Roma l’Itavia Società di Navigazione Aerea, la cui base di armamento era il piccolo aeroporto dell’Urbe nei pressi della capitale, con l’intenzione di collegare le città italiane mal servite o escluse dai servizi aerei.
Con l’assorbimento della L.A.I. Linee Aeree Italiane da parte dell’Alitalia, e la scomparsa di tutte le altre piccole compagnie aeree nate nel dopoguerra – compresa la A.L.I. Flotte Aeree Riunite, l’ultima compagnia con capitale privato tra cui la FIAT -, diverse città rimasero senza collegamenti aerei.
Fu così che un gruppo di imprenditori privati decise di costituire l’Itavia, acquistando un piccolo bimotore inglese, il De Havilland D.H.104 “Dove” da otto posti, lo I-AKET, che in precedenza era appartenuto al Gruppo FIAT.
La tratta Roma-Pescara fu il primo servizio regolare di linea, che venne inaugurato il 15 luglio 1959 e che entro la fine dell’anno trasportò ben 1.573 passeggeri. Visto questo successo la dirigenza decise di rivendere il bimotore in Inghilterra e rimpiazzarlo con ben sei quadrimotori De Havilland D.H.114 “Heron”, che era la versione maggiorata del “Dove”, che poteva trasportare fino a 14 passeggeri.
Il primo a entrare in servizio fu lo I-AOZM, il 4 aprile 1960, sulla rotta Roma-Siena, a cui seguì la Roma-Genova, il 15 maggio, alleviando il capoluogo ligure che era mal collegato per via aerea. Purtroppo fu proprio su questo collegamento che avvenne il primo incidente fatale. Il 14 ottobre dello stesso anno il velivolo, a causa del maltempo, si schiantò sull’Isola d’Elba contro il Monte Capanne, causando la morte di tutte le persone a bordo: otto passeggeri e due membri dell’equipaggio.
La stampa nazionale diede molto risalto a questo fatto, forse alimentata anche da alcuni personaggi dell’Alitalia che intravedevano nella piccola compagnia un pericoloso concorrente.
Il giorno dopo l’Itavia sospese tutti i voli, ma la dirigenza, che non erano d’accordo a cessare l’attività, trovò un nuovo socio che portò in dote nuovi capitali per una migliore gestione; entrò così il principe Giovanni Battista Caracciolo, del noto casato napoletano.
L’Itavia prima della ripartenza, avvenuta il 13 novembre 1962, cambiò anche la ragione sociale in Aerolinee Itavia e, grazie ai nuovi capitali, migliorò ulteriormente la flotta con la vendita degli Heron, sostituiti da quattro bimotori Douglas C-47A e B (l’intramontabile DC-3, dagli inglesi battezzato “Dakota”).
Con l’arrivo dei più capienti aerei e il conseguente aumento del traffico, la compagnia si trasferì all’aeroporto romano di Ciampino. Purtroppo la sorte si accanì nuovamente contro la compagnia con la perdita del DC-3 I-TAVI, proveniente da Pescara e destinazione Ciampino, che sempre a causa del maltempo si schiantò contro il Monte Valeronote, vicino a Sora (Frosinone); anche in questo caso nessuno sopravvisse all’impatto.
Nel 1965 il principe Caracciolo si dimise dalla compagnia, al quale subentrò il noto imprenditore Aldo Davanzali, che rilevò la maggioranza delle azioni dell’Itavia. Egli desiderava far diventare la piccola compagnia un’importante aerolinea, decidendo di sostituire i vecchi DC-3 con nuovi velivoli più moderni. Dopo varie valutazioni la scelta cadde sui biturbina inglesi Handley Page H.P.R.7 Dart Herald dotati, a differenza dei precedenti velivoli, di una cabina pressurizzata permettendo di volare al di sopra delle perturbazioni, offrendo un maggior comfort ai passeggeri.
L’esperienza con i nuovi aerei inglesi, l’espansione dei collegamenti e l’apertura di nuove rotte sia italiane che estere, fece prendere a Davanzali la decisione di passare dai velivoli ad elica a quelli a reazione con l’acquisto di nuovi bireattori. La scelta cadde su due modelli: prima, a partire dalla fine del 1969 con il Fokker F.28 Mk.1000 di costruzione olandese, e poi, dal 1971 al 1980, con gli statunitensi Douglas DC-9 di varie serie, di cui diversi presi a noleggio.
Purtroppo, come ben sappiamo, entrambi i modelli ebbero due gravi incidenti, prima con lo schianto dell’F.28 (I-TIDE) qui a Caselle il 1° gennaio 1974, e poi il 27 giugno 1980 quella del DC-9-15 (I-TIDI), con la tragedia avvenuta nel cielo di Ustica, con ben 81 vittime, farcita di depistaggi e misteri.
Quest’ultima sciagura aerea decreterà amaramente la fine dei voli il 10 dicembre 1980, con Itavia che venne in seguito posta in amministrazione straordinaria il 31 luglio 1981.
L’Itavia fa parte della storia, ancorché tragica, della nostra aviazione commerciale e ha lasciato un segno indelebile, pur essendo una piccola ( ma assai attiva…) compagnia aerea italiana; si sarebbe senz’altro potuto salvarla, se solo si fosse voluto, ma nessuno intervenne. In fondo, Itavia dava troppo fastidio negli ambienti dell’aviazione civile del nostro Paese.

La storia del Fokker F.28 Fellowship
Tra la fine degli Anni Cinquanta e l’inizio degli Anni Sessanta del secolo scorso, la Fokker olandese, visto il successo di vendite del bimotore a turboelica F.27 “Friendship” (786 esemplari costruiti), iniziò gli studi per un suo successore bireattore, destinato a tratte brevi, con la capienza di 55-65 passeggeri.
In quegli anni il futuro dell’aviazione commerciale vedeva la necessità di collegare più velocemente le diverse destinazioni, anche per tratte brevi.
Nacque così l’F-28 Fellowship, un aereo con la coda a “T” e due motori ai lati della fusoliera posteriore, formula ripresa dal famoso aereo francese “Caravelle”, a cui si ispirarono diverse ditte europee, americane, nonché sovietiche.
L’aereo era propulso da due Rolls Royce RB 183-2 Spey Mk 555-15 da 4.495 Kg, di spinta, e il prototipo effettuò il primo volo il 9 maggio 1967, immatricolato PH-JHG le cui tre lettere finali erano le iniziali del capo progettista Dr. Johan Hendrik Greidanus. Il secondo prototipo il 3 agosto 1967, ricevendo il Certificato di Aeronavigabilità il 24 febbraio 1969. La capienza di questa versione era di 65 passeggeri.
L’aereo, denominato nella prima serie F.28 Mk.1000, data la conformazione dell’ala aveva la possibilità di effettuare atterraggi su piste più corte dell’ordine di 1.500-1.600 metri, o anche meno, grazie ai potenti ipersostentatori a doppia fessura, che scorrevano su guide aumentando la superficie e quindi la portanza. Senza dimenticare i generosi aerofreni posteriori con apertura a valva che permettevano una rapida frenata. L’aereo era infatti destinato a operare soprattutto su aeroporti minori con compagnie di secondo o terzo livello, al contrario del suo concorrente inglese BAC 111 destinato al mercato delle compagnie maggiori.
Furono diverse le società che parteciparono alla produzione dell’aereo come le tedesche VFW e MBB e la Shorts dell’Irlanda del Nord, e nel 1970, vide la luce la versione Mk.2000, più lunga di 2,21 metri e una capienza massima di 79 passeggeri.
Vennero proposte due versioni la MK.5000 con fusoliera più corta e la Mk.6000 più lunga con diverse migliorie, ma non trovando clienti la Fokker propose due soluzioni alternative la versione più corta Mk.3000 e quella più lunga Mk.4000, avendo incorporato tutte le soluzioni e migliorie delle due versioni non costruite, come l’apertura alare portata da 23,58 metri a 25,07 metri.
Entrambe dotate di nuovi motori RB 183 Mk 555-114, e di un impianto più silenziato per ridurne il rumore.
Al momento della chiusura delle linee di produzione nel 1986, le vendite furono di 241 esemplari a 57 utilizzatori in tutti i continenti, sempre a piccoli contingenti. Infatti i clienti migliori furono la Garuda indonesiana e la Linjeflyg svedese, mentre tutti gli altri clienti, anche se importanti, si fermarono al max a otto esemplari.
Si ebbero due nuove versioni del “Fellowship”, in fase di progetto come “Super F28” da 100-130 posti, poi risiglati Fokker F100 versione maggiorata da 130 posti (280 prodotti), seguito dal più piccolo F70 da 70 posti (45). Purtroppo la mancanza di ordini sostanziosi e in crisi monetaria la società olandese dichiarò fallimento il 15 marzo 1996.
L’Itavia acquistò direttamente dalla Fokker sei esemplari dello F.28 e negli anni ne noleggiò altri nove tra cui uno direttamente dalla ditta costruttrice, il PH-MOL, terzo esemplare costruito.

 

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