L’attuale territorio del Comune di Mappano, che fino a qualche decennio fa era suddiviso fra quattro comuni, un tempo faceva parte soprattutto del territorio di levante di Caselle e Borgaro. Così per proseguire il nostro viaggio nelle cascine settecentesche di Mappano, le notizie dobbiamo ricercarle soprattutto negli antichi catasti casellesi e borgaresi, dove vengono descritte e censite.
Per tutto il medioevo questo territorio non era molto sfruttato, e faceva parte di tutte quelle terre condivise e suddivise fra i vari comuni, che venivano utilizzate soprattutto per i pascoli collettivi.
Questo perché il territorio, oltre a raccogliere le acque e gli “scolatizi” dei terreni a monte, era ricco di risorgive, creando un territorio paludoso difficilmente coltivabile.
A partire dal XIV secolo con la formazione del canale del mulino di Leinì, che raccoglieva le acque a partire dalle risorgive poste nell’attuale zona dell’attuale laghetto della Gioia, si iniziò a risanare gradualmente il territorio.
Dal secolo successivo queste terre comuni iniziarono a essere date in enfiteusi a singoli cittadini, nel tentativo di ridurre a coltura la maggior parte del territorio.
Nel Cinquecento, parallelamente a quanto avvenne in tutta Italia, venne anche tentato uno sfruttamento di questi terreni acquitrinosi con la coltivazione del riso.
Purtroppo queste risaie, al contrario di quelle moderne, erano caratterizzate dalla continua presenza dell’acqua che provocarono ben presto numerose epidemie di febbri malariche, tanto che, dopo numerose proteste degli abitanti, il 30 aprile 1620 venne emanato un editto che ne proibiva la coltivazione.
L’inizio del Seicento è stato comunque un periodo di grandi bonifiche, e soprattutto il Piemonte vide la costruzione di numerosi canali che da un lato risanavano i territori più paludosi, e dall’altro crearono una vasta rete che alla fine del secolo portò ad avere sul territorio una irrigazione tra le più perfezionate del continente.
Così in questo periodo i Gesuiti della grande Cascina di San Giorgio, posta sul territorio di Settimo, realizzarono a Mappano un grande canale che raccoglieva le acque delle varie risorgive per portarle a irrigare la loro estesa tenuta. Questa opera fu fondamentale per bonificare in modo decisivo il territorio di Mappano, che intanto, a seguito della vendita delle terre comuni, vedeva la formazione di numerosi appoderamenti con al centro le loro cascine.
Il territorio nel Settecento
Nel Settecento il territorio era ormai quasi completamente coltivato, a eccezione di alcuni grandi boschi comunali posti nelle parti di territorio più acquitrinoso che erano i residui delle antiche terre comuni medievali e che erano utilizzati anche per le cacce reali del Duca. La maggior parte del territorio messo a coltura era suddiviso fra le varie cascine che avevano una media di cento giornate ciascuna, e che le coltivavano a grandi linee per un terzo a prato e pascoli, un terzo a campi e alteni (coltivazione mista di seminativi e vite) e per un terzo a bosco per la legna necessaria all’azienda.
Per meglio capire come era il territorio agricolo di Mappano, riporto alcuni estratti di quanto scritto nelle relazioni di metà Settecento dall’intendente del Duca di Savoia Sicco a riguardo di questa zona di territorio, dove si vede che comunque i terreni non erano di grande qualità e resa produttiva.
Così nella relazione di Borgaro il Sicco dice che: “…la parte dei beni esistenti inferiormente al luogo per li due terzi circa è d’una fertilità tra il bono e mediocre, a riguardo dei prati, e campi, avendo di tanto in tanto li primi il beneficio dell’acqua, sebben li secondi siano in bona parte sottoposti alla nebbia, o sia manna persicché le raccolte ne soffrono non di rado”
Anche riguardo i boschi la situazione non era migliore: “…a riguardo poi de boschi da tal parte esistenti per l’ammontar di giornate cinquecento circa, sono di poco reddito, producendo per lo più spineti, e cespugli selvatici, oltreché vi sono per essi molti vacui per il mantenimento delle strade e battute delle Regie Caccie”.
Neanche i terreni lasciati a gerbidi comuni erano in condizioni migliori, tanto che così venivano descritti: “...in quanto ai siti gerbidi per la quantità di giornate cento circa, non si ponno questi ridur a coltura, per la mala qualità del terreno per lo più paludoso, e fangoso, attorno a questi gerbidi si sa dai Proprietari stessi, che si son fatte tutte le diligenze possibili sia per coltivarli, che per imboschirli, colla formazione dei fossi, con li roncamenti, e col seminerio della ghianda, ma esser il tutto non riuscito”.
I prodotti non erano poi dei migliori, come vediamo nella descrizione della coltivazione della vite: “Gli Alteni nella maggior parte sono poco considerati in quel finaggio, mentre li vini che si fanno da medesimi, riescono d’una qualità inferiore, che in tempo d’estate sogliono guastarsi attesa non tanto la misera qualità degli uvaggi, quanto pure la situazione stessa dei terreni altenati, e detti vini sono per lo più agri e di poco esito”.
Come si capisce da questa relazione il terreno di Mappano non era poi così fertile come si può pensare, e solo a partire dall’Ottocento, con il perfezionamento delle tecniche agrarie e soprattutto con l’uso di concimi chimici, si è potuto ricavare una produzione soddisfacente dai terreni coltivati.
Le Cascine
Nonostante la qualità del terreno, Mappano aveva comunque diverse grandi cascine che erano di proprietà di importanti famiglie torinesi che investivano i loro capitali nelle aziende agricole, mantenendole efficienti e produttive.
Diverse cascine erano di proprietà di enti religiosi che le possedevano tenendo sotto stretto controllo gli affittuari con visite periodiche sia direttamente che tramite i loro agenti.
Nell’allegata tavola vengono individuate tutte le cascine censite nella prima metà del 1700 sul territorio dell’attuale Comune di Mappano, che erano le seguenti:
TERRITORIO EX CASELLE
1 – Cascina Gorzana: situata in regione Fanghi, di proprietà del Conte Imperiale Antonio Tarino, possedeva 120 giornate di terra. Il nome deriva dal proprietario Michele Gorzano dell’inizio del Seicento, da cui il conte Tarino la acquistò nella seconda metà del Seicento.
2 – Cascina Senta: situata anch’essa in regione Fanghi, era di proprietà del sig. Paolo Francesco Castelli, che possedeva, insieme alla cascina Bollettina, un totale di 140 giornate di terra, oltre ai possedimenti della cascina Gioia anch’essa di sua proprietà.
3 – Cascina Castellazzo: situata in regione Fanghi, era un’altra cascina di proprietà del Barone Bianco Carlo Giacinto di Barbania, con 181 giornate di terra, che la acquistò da Carlo Nicolao Chiarnevale nel 1678. Una delle cascine più antiche del territorio, deve probabilmente il suo nome alle sue forme massicce che già possedeva nel XVI secolo. Questa cascina lungo il Seicento passò in proprietà a numerose persone, prima di arrivare al Barone Bianco di Barbania.
4 – Cascina Vittona: situata in regione Fanghi, era di proprietà dei Padri Gesuiti con 176 giornate di terra, e il suo nome deriva dalla precedente proprietaria, la signora Vitona. Nei decenni scorsi questa importante cascina a corte è stata demolita per far posto a una estesa lottizzazione industriale.
5 – Cascina Cappelletta: situata in regione Fanghi, questa cascina era divisa tra due proprietari, ossia Giacomo Re con 32 giornate di terra e Giambattista Rodes con 58 giornate; nel catasto del 1628 era già detta “cassina in regione Capelletta”.
6 – Cascina Canova: situata in regione Fanghi, era di proprietà del sig. Gian Battista Canova con 158 giornate. Anche se il nome sembra derivare dal nome del proprietario, in realtà era già detta Canova all’inizio del ‘600 quando era di proprietà del sig. Giovanni Lorenzo Girardi. Anch’essa è una delle cascine più antiche del territorio, e la presenza in consegnamento del 1567 di un tenimento detto “Grangia nova”, potrebbe spiegare le sue origini e il suo nome, anche se i documenti non lo hanno ancora provato.
7 – Cascina Badaria: situata nella regione detta delle Novanta Giornate, era di proprietà del reverendo don Pietro Michele Maffey, con 81 giornate di terra. La cascina nel Settecento era anche detta delle “90 giornate” in memoria dell’antico tenimento comunale così detto, che venne venduto alla fine del 1600 e al centro del quale venne realizzato il fabbricato. Grazie ai censimenti parrocchiali dell’epoca, i cosiddetti “Stati d’anime”, si sa che la cascina venne costruita nel 1727 dal Reverendo Bonfiglij di Leynì, che insieme a Don Maffei mise a coltura l’antico pascolo comunale.
8 – Cascina Argentera: situata in regione Colombaro, era di proprietà del sig. Pietro Fiando con 128 giornate di terra. Il nome deriva dall’originaria famiglia che ne era proprietaria nella seconda metà del XVI secolo, ossia i nobili Argentero di Chieri, che nel 1607 la vendettero aCesare Rosso per poi passare di mano a diversi proprietari, tra cui i Padri di San Domenico. Fra tutte le cascine sicuramente questa è quella più interessante dal punto di vista architettonico, anche se in parte sminuita da interventi successivi, e conserva ancora l’antica cappella un tempo dedicata a San Rocco.
TERRITORIO EX LEINI’
9 – Cascina Reisina: Posta sull’antico territorio di Leinì, ai margini del confine con Caselle, era di proprietà dei Padri Gesuiti che possedevano anche la cascina Vittona. Non è ancora chiarito se il nome derivi all’antica famiglia proprietaria, o dalle risaie coltivate al suo intorno.
TERRITORIO EX BORGARO
10 – Cascina Colombaro: era di proprietà dei Padri di San Domenico di Torino, che tra Caselle e Borgaro possedevano ben 155 giornate di terra. Anch’essa come l’Argentera alla fine del 1500 era di proprietà della famiglia Argentero, e deve il suo nome probabilmente per la presenza di una torre colombaia ancora oggi esistente.
11 – Cascina Palazzetto: nel 1735 era di proprietà del Conte Renato Augusto Birago di Borgaro con 133 giornate di terra. Importante e antica cascina deve il suo nome probabilmente per la presenza della lussuosa villa del proprietario con annessa cappella e giardino. Purtroppo dopo decenni di abbandono, oggi si ritrova completamente diroccata, e nulla degli antichi fasti rimane ancora.
12 – Cascina Farinasso: era di proprietà dei Padri di San Salvatore di Torino con un tenimento di ben 210 giornate, e oggi si ritrova inglobata tra due capannoni industriali.
13 – Cascina Gambetta: era di proprietà dei Padri di San Filippo Neri di Torino con 53 giornate di terra
14 – Cascina Merla: di proprietà dei Padri della Madonna del Carmine di Torino, con 109 giornate di terra, oggi si ritrova in stato di semi abbandono.
15 – Cascina Ca’ Bianca: era di proprietà del Conte Augusto Renato Birago di Borgaro con 100 giornate di terra. Le vicende di questa cascina seguono quelle della cascina Palazzetto, che, a partire dal primo proprietario conosciuto del 1611 che era Giovani Antonio Caleri, passò nelle mani di diversi proprietari, fino ad arrivare al Conte Righini dell’Ottocento, per ritrovarsi oggi in completo stato di abbandono. Questa cascina ha la particolarità di essere stata costruita a cavallo del confine tra Mappano e Torino, fatto che nei secoli ha dato vita a diverse vertenze su quale Comune doveva pagare le imposte.
Come visto il territorio di Mappano era quasi completamente suddiviso tra le varie cascine esistenti, e al contrario degli altri Comuni, che intorno al centro abitato vedevano la presenza di numerosi piccoli fabbricati agricoli di piccoli proprietari (cascinotti, o anche detti ciabot), la cui economia era rivolta essenzialmente all’autoconsumo, e probabilmente abitate dallo stesso proprietario che gestiva direttamente l’azienda insieme alla sua famiglia, qui non esistevano, con una sola eccezione:
16 – Ciabot Taschero: era un piccolo cascinale posto a fianco della Cascina Colombaro, lungo la strada per Torino, di proprietà di Carlo Giuseppe Taschero che possedeva neanche due giornate di terra insieme a un altro piccolo cascinotto vicino a Santa Cristina. Questo cascinotto venne poi venduto nel 1740 ai Padri di San Domenico per essere inglobato nella tenuta della Cascina Colombaro.
Queste cascine elencate fino alla metà dell’Ottocento si spartivano quasi interamente il territorio dell’attuale Mappano ed erano anche gli unici fabbricati esistenti, in cui vivevano non più di 250 abitanti, tra proprietari, contadini, bovari e servi.
Dalla metà del secolo XIX, con la vendita dei residui grandi boschi comunali, ma soprattutto dallo smembramento delle grandi proprietà terriere, causato dalla crisi nell’agricoltura che non garantiva più i rendimenti dei secoli scorsi, soprattutto se paragonato a quella della nascente industria su cui i grandi possidenti iniziarono a investire a scapito dell’agricoltura, la situazione iniziò a cambiare radicalmente.
Con l’insediamento di nuovi piccoli proprietari che iniziarono a costruire nuovi cascinotti sparsi, e sempre più numerosi, affiancati dalle numerose famiglie di lavandai che vennero ad abitare in questi territori ricche di acque, vennero gettate le basi dell’attuale Comune.