Pillole

Ci sono persone che non sono note ai più, forse perché non sono mai apparse in tv o perché non hanno compiuto atti degni di essere inseriti nella cronaca nera. Fra queste una donna, che non ho avuto il piacere di conoscere personalmente, ma conosco la sua ammirevole iniziativa sin da quando ho iniziato a fare il volontario in Emergency (2001). Questa donna si chiama Franca Faita. Era un operaia, ora penso sia pensionata. Cosa fece per meritare il titolo di Cavaliere della Repubblica dal Presidente Ciampi? La motivazione è abbastanza inconsueta. La storia di Franca s’incrocia, quando aveva solo diciassette anni, con la storia della Valsella.

Un’azienda a Castenedolo (BS) che produceva in origine mobili metallici; poi quando la richiesta è scesa, era il 1983, gli operai si sono trovati da un giorno all’altro a fabbricare mine antiuomo. “Può sembrare incredibile”, disse la signora Franca durante un’intervista, “ma non capivamo cosa stavamo costruendo”.

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Nella Valsella si costruivano ordigni di guerra e agli operai era stato detto che servivano per difendere il territorio. Siamo andati avanti per 10 anni con commesse grandiose. Da parte sindacale, ad ogni incontro con la proprietà, chiedevamo: Per chi sono tutte queste mine?. La risposta era: segreto militare.”

Si calcola che la Valsella, nella sua breve storia, abbia fatto oltre 30 milioni di mine! Franca e le sue compagne restavano all’oscuro di quali fossero le conseguenze nell’utilizzo finale del prodotto che usciva dal loro lavoro. “Fu l’incontro con Gino Strada ad aprirci gli occhi”, rabbrividisce ancora Franca Faita, mentre ricorda quel momento, “lui ci disse che quelle mine stavano provocando tantissime vittime civili, soprattutto bambini, che con la guerra non c’entravano, e non c’entravano con la difesa del territorio”.

La vostra è quella più bastarda: ce ne sono a migliaia nel Golfo e in tutto il mondo…. Poi ho anche avuto modo di conoscere Kher Man So, un bambino della Cambogia, con una gamba mozzata da una mina, mentre andava a scuola in bicicletta. Ho negli occhi ancora l’immagine di quel bambino che mi ha chiesto di non costruire più mine. Perciò io, con altre poche operaie, abbiamo continuato a parlarne anche fuori dei cancelli della fabbrica e in giro per l’Italia”.

Il primo convegno internazionale organizzato in Italia per la messa al bando delle mine antiuomo si svolse proprio a Brescia, nel settembre del 1994. A quell’incontro, partecipano anche 5 operaie della Valsella, ovviamente con Franca in testa. Queste si presentano con uno striscione e la domanda più lecita del mondo “Perché per lavorare e vivere dobbiamo costruire mine che uccidono?”.

Con queste parole scritte a caratteri cubitali accompagnano poi cinquemila persone in una lunga marcia di protesta da Brescia a Castenedolo. Ma come reagirono i vertici della Valsella? Come presero l’affronto di queste coraggiose operaie? “Non me ne hanno risparmiata una”, dice Franca. “La vita in fabbrica era molto dura per noi, e soprattutto per me, perché ero controllata a vista. Ho dovuto soffrire, sopportare”.

La battaglia della Valsella ci è costata 18 mesi di CIG senza stipendio. Ma ne è valsa la pena. Nel 1998, la Valsella è stata messa in liquidazione, è stata prelevata da un’altra Società; è stato fatto un accordo sindacale per distruggere tutto quello che riguardava la produzione delle mine antipersona e per produrre solo prodotti civili. Franca ricorda ancora le offese subite, le minacce, i ripensamenti. Quante volte ha pensato di mollare, quante volte ha dubitato di quello che stava facendo. Ma alla fine, con l’approvazione nel 1997 della legge 374, la sua battaglia è stata vinta. Se non si vendevano più le mine, non era certo per la consapevolezza da parte dei dirigenti delle fabbriche dei danni che queste provocavano, ma solo perché la legge non lo permetteva più. “Come donna e come madre e come sindacalista, sono fiera della battaglia che ho fatto; e la farei di nuovo. E prego anche voi di provare a fare lo stesso. Fate prodotti che favoriscono lo sviluppo e il benessere di tutti i popoli, questo è l’unico investimento che rende, perché genera ricchezza, sicurezza e felicità condivisa. Mine, bombe e armi che producono distruzione, non sono un investimento, ma una pazzia che non dobbiamo più permettere”.

Nota mia personale: chissà se anche i tecnici e i dipendenti tutti, dell’azienda che abbiamo in casa nostra, hanno avuto a volte qualche ripensamento di questo tipo? Posti di lavoro ben retribuiti, difficile rinunciarvi. Però, per favore, non né siate orgogliosi, e quando nominate l’azienda in cui lavorate fatelo sottovoce.

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Ernesto Scalco
Sono nato a Caselle Torinese, il 14/08/1945. Sposato con Ida Brachet, 2 figli, 2 nipoti. Titolo di studio: Perito industriale, conseguito pr. Ist. A. Avogadro di Torino Come attività lavorativa principale per 36 anni ho svolto Analisi del processo industriale, in diverse aziende elettro- meccaniche. Dal 1980, responsabile del suddetto servizio in aziende diverse. Dal '98 pensionato. Interessi: ambiente, pace e solidarietà, diritti umani Volontariato: Dal 1990, attivista in Amnesty International; dal 2017 responsabile del gruppo locale A.I. per Ciriè e Comuni To. nord. Dal 1993, propone a "Cose nostre" la pubblicazione di articoli su temi di carattere ambientale, sociale, culturale. Dal 1997 al 2013, organizzatore e gestore dell'accoglienza temporanea di altrettanti gruppi di bimbi di "Chernobyl". Dal 2001 attivista in Emergency, sezione di Torino, membro del gruppo che si reca, su richiesta, nelle scuole.

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